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La voce

del tassobio

Le preghiere delle nonne - 1a parte

15 – Le preghiere delle nonne -

Sono le preghiere non canoniche che il popolo si è creato a proprio uso e consumo, basandosi molto sulle proprie esigenze, sfruttando la catechesi del tempo, rischiando, a volte, di rasentare l’eresia, seppure in buona fede.

La preghiera una volta occupava molta parte del tempo non necessario al lavoro. Si pregava in casa, lungo il cammino, sostando un attimo davanti alle maestà, mentre ci si arsorava, e calcolando le distanze in base al “Bene” che si riusciva a recitare.

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Qualche altro proverbio - 3a parte

14 Castagne

 

 

14 – Qualche altro proverbio (IIIª)

Il contadino comincia ad osservare il grano. Sa che, se tutto fila liscio,

Per Santa Crûš / al furmênt l’é spigûš.

[Per Santa Croce (3 maggio) il grano ha la spiga].

Ma se piove sarà dannoso alla campagna:

S’ piöv al dì d’ Santa Crûš / a va a falìdi ‘l nûš.

[Se piove il giorno di Santa Croce vanno fallite le noci]

Per poi arrivare all’esasperazione:

S’a piöv per l’Asensiûn / t’ pêrd la ‘mbrènda e la clasiûn.

[Se piove per l’Ascensione perdi la merenda e la colazione].

Poi si avvicina il periodo cruciale:

Per San Švàn al furmênt l’é da tajâr / e la cavajunâra da fâr.

[Per San Giovanni il grano deve essere mietuto

e si deve preparare la bica dei covoni].

La mietitura al momento giusto è importante:

Se t’ vö tânta farîna / méd la spîga quand la strîna.

[Se vuoi molta farina mieti quando la spiga è arida].

È vero, il grano non ha bisogno di pioggia, anzi ! Ma l’uva si:

A San Pêder, s’a spiuvšîna,

a s’ rimpìsa la cantîna.

[Se pioviggina per San Pietro si riempie la cantina].

Una volta sistemato il grano bisogna curare anche il foraggio per il bestiame:

Per Santa Madalêna (22 luglio) / la tèša la völ piêna.

[Per Santa Maddalena il fienile deve essere già pieno].

Chî ch’a sàpa la vîda al prìm d’Agùst

a San Martîn al srà piên ad mùst.

[Chi zappa la vite il primo giorno di agosto

a San Martino sarà pieno di mosto].

L’aqua agustâna / la fa crèser la castâgna.

[L’acqua agostana fa crescere la castagna].


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Qualche proverbio - 2a parte

13 – Qualche proverbio (IIª)

Quand a vên l’Epifania / túti ‘l festi la pôrta via,

fin ch’a n’ rîva San Bendèt / ch’a n’in pôrta un bel sachèt.

[L'Epifania porta via tutte le festività, finché non arriva San Benedetto –

che ne porta un bel sacchetto].

Di per sé l’epifania è l’ultima delle festività natalizie, ma dà anche inizio al periodo di Carnevale. L’epifania, quindi, conclude le festività ufficiali, ma intanto guardiamo avanti perché arriveranno quelle del periodo pasquale, (un bel sacchetto) normalmente dopo la metà di marzo. E S. Benedetto un tempo si festeggiava il 21 marzo, inizio della primavera.

Šnâr al fa i punt / Fervâr a i rump,

Mârs a i porta via, / Avrîl sûga la via.

[Gennaio fa i ponti (col ghiaccio) - febbraio li rompe, (li scioglie)

marzo li porta via (finisce di sciogliere la neve), - aprile asciuga la via].

È un po’ l’evoluzione del tempo nei quattro mesi: gennaio è ancora freddo, febbraio comincia a fare meglio, marzo completa il disgelo, in aprile ci sarà bel tempo.

Quand a vên la Candelora / da l’invêrne i’ sèma föra.

[Quando arriva la candelora siamo fuori dall’inverno].

Ma s’a bàt al sûl int la candlîna / a tûrna târdi la rundanîna.

[Ma se il sole batte sulla candelina / torna tardi la rondine].

Il 2 febbraio è uno dei tanti giorni presi come riferimento dell’andamento del tempo. La data dovrebbe determinare il passaggio dal rigore invernale al tepore primaverile. Ma quel giorno dovrebbe essere brutto.

S’a piöv a Fervâr / a s’ rimpìsa al granâr!

[Se piove in febbraio si riempie il granaio].

Febbraio è comunque un mese di cui è meglio non fidarsi:

Fervâr cúrt, cúrt / l’è pêš che un túrch.

[Febbraio corto corto è peggiore di un turco].

Fervâr, Fervarîn / làsa stâr i cuntadîn.

Fervâr, Fervarìa / tú-c i dì ‘na malatìa.

[Febbraio, febbraiuccio, lascia stare i contadini.

febbraio, febbrarìa, ogni giorno una malattia].

Tempo instabile, pioggia o vento, anche qualche residuato di neve non debbono impressionare. Passano presto:

La nēva marsulîna / la dûra da la sîra a la matîna!

[La neve di marzo dura dalla sera al mattino].

Prudenza, comunque! Non si sa mai.

Chî ch’a gh’ha un sòch int al curtîl / ch’al le tìgna per Mars o Avrîl!

[Chi ha un bel ceppo nel cortile - lo conservi per marzo e aprile].

Ed ecco il mese della primavera!

Lûna növa d’Avrîl / s’a n’é fiurî l’è adrê fiurîr!

[Luna nuova d’aprile: se non è fiorito sta per fiorire].

E quella pioggia al momento giusto è benedetta:

Quand a piöv d’Avrîl / manìsa un bel barîl.

[Quando piove in aprile prepara un bel barile].

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Qualche proverbio - 1a parte

12 – Qualche proverbio -

I proverbi sono stati definiti La saggezza dei popoli. Racchiudono in poche parole verità che sono il frutto di anni di osservazione. Sono un esempio di sintesi inimitabile e la forma è orecchiabile per essere facilmente memorizzata. Dice Mazzaperlini:

I pruvèrbi, cûn pasiénsa,

j ên stâ fàt da l’esperiénsa.

Partiamo da San Martino (11 novembre) perché l’anno agricolo di un tempo iniziava e terminava con questa festività.

Proverbi lungo l’anno:

Per San Martîn / la búta piena d’ vîn.

(Ma chî ch’rimpìs al butûn / l’è sempr’al siûr padrûn).

[A San Martino - la botte piena di vino! –

(Ma chi riempie la botte grande - è sempre il signor padrone)].

E qui ritorniamo ai tempi della mezzadria e alle infinite dispute tra padrone e mezzadro.

A San Martino un tempo si assaggiava il vino nuovo:

Per San Martîn / l’è ûra ‘d sentêr al vîn.

[Per San Martino è ora di assaggiare il vino (nuovo)]

Avvertimento importante: a S. Martino la semina deve essere conclusa, altrimenti il grano marcirà invece di germogliare, e l’annata sarà da fame:

Chi ch’a smêna a San Martîn / al gh’ha la sperânsa dal purîn,

[Chi semina a San Martino - ha la speranza del poveraccio]

Tempo brutto e neve non devono impensierire. Sotto la neve il grano è protetto dalle gelate e cresce più robusto. Del resto le stagioni sono tali perché ognuna ha una sua caratteristica.

Se a Nuvèmbr’a tîra ‘l trûn / pr’al furmênt al srà un an bûn.

Santa Bibiana / quarânta dì e ‘na stmâna.

([Come sarà il tempo il giorno di] Santa Bibiana

[così sarà per] quaranta giorni ed una settimana).

È sempre stato inteso così questo proverbio. In realtà, quando fu formulato, intendeva dire che il giorno di Santa Bibbiana sarà della stessa durata di un giorno di gennaio, dopo circa 40 giorni. Cioè avrà le stesse ore di luce e di notte.

La nòta d’ Sânta Lusìa / l’è la pu’ lùnga ch’a gh’ sìa

(La notte di Santa Lucia – è la più lunga che vi sia),

Anche in questo caso c’è confusione. In realtà la notte più lunga è quella tra il 21 e il 22 dicembre. L’errore è dovuto ad un computo sbagliato delle ore e dei minuti. Alla riforma del calendario voluta da Giulio Cesare (46 a. C.) sfuggirono alcuni secondi che, col passare dei secoli, diventarono circa una settimana. Gregorio XIII°, nel 1582, fece correggere l’errore.

Gli inverni di un tempo erano davvero brutti. Oltre al gelo vi erano le malattie stagionali:

L'inverno l'è 'l bòja dei veci,

el purgatorio dei puteléti,

e l'inferno dei poaréti.

(L’inverno è il killer dei vecchi, il purgatorio per i piccoli,

e l’inferno dei poveri).

Anche il foraggio deve essere razionato. Se si capisce che non basterà e che il cattivo tempo durerà più a lungo del previsto bisogna vendere o uccidere qualche animale:

Nadâl sensa la lûna / ad növ pègri gh’n’armàgn ùna.

[Natale senza la luna – di nove pecore ne sopravvive una)

Nadàl sensa la lûna / chi ch’a gh’ha dû vàchi a n’in mangia úna.

[Natale senza la luna – chi ha due mucche ne sacrifichi una].

12 Carnevale

Carnevale è periodo di festa e di divertimento, ma anche di spese:

Carnevâl l’è un bûn cumpàgn

perché ‘l vên ‘na vôta a l’an,

che s’al gnìsa tú-c i mêš

al srê l’arvîna dal paêš!

[Carnevale è un buon compagno perché capita una volta all’anno,

perché se capitasse ogni mese sarebbe la rovina del paese].

 

 

 

 

 

 

 

 

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La valle del Tassobio e gli scrittori

11 - La Valle del Tassobio e gli scrittori
L’elenco che propongo comprende scrittori noti nati nella Valle del Tassobio,
(alcuni anche di poca importanza, ma li cito perché anche loro hanno apportato la
loro pagliuzza!) e scrittori che, pur essendo nati altrove, ne hanno parlato, ne
hanno detto bene. Ve ne sono tanti altri che hanno scritto o scrivono sul nostro
territorio con libri o articoli su riviste. Non potendoli citare tutti suggerisco di
consultare il catalogo pubblicato su Redacon il 10 maggio 2013 (www.redacon.it
– articoli di Savino Rabotti), ove ne trovate più di mille. Ve ne saranno anche
altri, vivi o defunti, che non ricordo o non conosco. Se me li segnalate Vi
ringrazio.

 

11 Voce tassobio

 

2010 - Presentazione del Vocabolario dialettale a Sassuolo con il giornalista Leo Turrini e il Trio Canossa (Foto RS).

Albertini Normanna, nata a Soraggio di Gombio, ha già al proprio attivo una decina di libri che descrivono la vita di un tempo in val Tassobio;
Barani Mariarosa – Ha diversi componimenti sui mestieri e i panorami locali.
Biagini Eolo di Giandeto, ha scritto la poesia: ‘E Castlâr;
Borciani Arturo di Scandiano, con la poesia: Un furastêr al Castlâr;
Bussi Enrico: scrive sulle problematiche sociali della montagna;
Caprari Savina, di Reggio, con la poesia: Castel ed Castlêr;
Caroli Giovanna, di Casina, con molti libri e articoli su personaggio o eventi storici di Casina e della montagna;
Colli padre Brenno, di San Polo, cappuccino: ha una poesia su Crovara;
Del Rio Lina di Montecchio, con la poesia: Per Rabòt e la so’ famìa;
Fontana Enzo, di Selvapiana, vive a Montecchio. Ha poesie e satire ambientate a Castellaro e Donadiolla, in lingua e dialetto;
Govi Ave, originaria di Meruzzo di Villa, con: La cûrta antîga; Tra cênt’àn chì; Bûn cumpleàn, puešìa;
Gregori Giorgio, di Casina. Ha monografie e studi su luoghi (Pianzo) e personaggi della vallata;
Grisanti Lidia di Vezzano, con: La cà a tòra ‘d Castellaro; Un apuntaméint importânt;
Guidetti Eufranio: era di Mulino Zannoni. Di lui ci resta una satira incompleta;
Guidetti Ricciardo di Mulino Zannoni, con satire ambientate a Gombio, Leguigno e Vedriano. Scrive in italiano, ma con concetti, mentalità e sintassi dialettali;
Musi Germano: è di Ciano d’ Enza. Ha scritto due canzoni su Castellaro;
Riccò Orio, di Canali di Albinea, con la poesia: A Castlêr l’è scupiê l’amòur… e l’Ode a Castellaro di Vetto;
Rosati Enrico, nato a Mulino Rosati, con la satira: La luce elettrica a Castellaro e testi di Maschere purtroppo non conservati;

Rossi don Giuseppe: era nato a Castellaro nel 1910. Fu parroco prima a Vaglie poi a Grassano. Ha pubblicato due volumi di poesie con una quindicina di testi che parlano di fatti e luoghi lungo il Tassobio;

Viappiani Ugo di Castelnovo, con la poesia: La fèsta dal Castlâr;
Zanetti Isaia, di Villaberza, con molte satire ambientate a Villaberza e dintorni.

C’è memoria anche di tre satirai di Vedriano sui quali non ho altre informazioni: un certo Del Rio, uno detto Il topo di Casaboschi, e un Olmi.
Inoltre qualcosa hanno composto anche
Campani Domenico di Donadiolla (una satira sulle elezioni del 1993);

un certo Fracassi delle Ottole di Gombio (componeva filastrocche per bambini);
Fracassi Dino (Gombio): ha alcuni simpatici componimenti in dialetto;
Fujîn di Legoreccio, di cui ci è rimasto un solo distico;
Giuliani Dino Alessandro: che viveva a La Pozza di Vetto. Collaborava con Enrico Rosati per i testi delle Maschere. Di lui è rimasta parte di una satira;
Manini Lino, di Pineto, con un paio di satire non conservate sui pinetani che andavano a foraggiare … oltre Enza;

e poi il maestro Pataccini, che ha insegnato a Pineto intorno al 1950 (La via nuova; La fontana di Maiola; Il casello di Strada). Di queste abbiamo solo frammenti. E ...
Primavori Roberta, coinvolta suo malgrado.

 

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Il dialetto è ancora vivo?

10 - Ma, oggi, davvero il dialetto è ancora vivo?

Direi proprio di sì. E vegeto. Come già accennato, me lo fa pensare il fatto che, negli ultimi decenni, si sono moltiplicati i concorsi di poesia dialettale, le compagnie di teatro dialettale, le ricerche sui dialetti.

Il concorso più prestigioso è quello abbinato alla Giarêda, a Reggio città, giunto alla 38ª edizione nel 2017; poi vengono quello di Castellaro, (13 edizioni, dal 1996 al 2008); quello di Vezzano (13 edizioni: dal 1999 al 2012); quello di Sant’Ilario (ancora attivo, giunto alla 11ª edizione); Selvapiana (5 edizioni dal 2009 al 2013); Pratissolo (ancora attivo, finora due edizioni). Per i concorsi citati esistono anche le antologie, alcune annuali (Castellaro, Selvapiana) altre biennali o triennali.

Vi sono poi antologie riservate a chi scrive prevalentemente in lingua, ma che ospitano anche testi in dialetto. Tra questi Un poco di noi e, quando c’erano, il Concorso di Carpineti e quello di Casina.

Oggi esistono “Siti” anche per il dialetto. Per alcuni ci si limita allo scambio di battute scritte in dialetto, senza pretese. Per altri invece si cerca di fare una ricerca basata anche sul contenuto scientifico dei vocaboli, della grammatica, della sintassi, sull’etimologia, sull’origine di certe espressioni (Parlòma ed dialètt – Parlòma in dialètt; Leones Prosperi).

Un lavoro fondamentale lo sta realizzando Daniele Vitali, di Bologna. La sua ricerca riguarda tutti i dialetti della Emilia-Romagna, paese per paese, ma con diversi sconfinamenti fuori regione ove esistono dialetti molto simili al nostro.

Ci sono poi alcuni giovani che hanno presentato la loro tesi di laurea su argomenti dialettali.

Ci sono state e ci sono ancora serate o pomeriggi dedicati al dialetto in diversi luoghi della montagna.

vocabolario

 

(foto R. S.)

In fine sono stati stampati due vocabolari del dialetto montanaro. Il primo è uscito nel 2010 e copre la fascia centrale dell’Appennino: Valle del Tassobio, Castelnovo, Carpineti (E. Biagini – S. Rabotti – C. Santi VOCABOLARIO DEI DIALETTI DEL MEDIO APPENNINO REGGIANO - Ass. Scrittori reggiani – 2010). Il secondo, uscito nel 2017, è opera di Pier Giorgio Ferretti, VOCABOLARIO DEL DIALETTO COLLAGNESE – Parlàmma in dialàtt - Ass. Scrittori reggiani – 2017, e riguarda in particolare il dialetto di Collagna e Cerreto Alpi.

C’è poi il mensile Tuttomontagna che ospita spesso articoli dedicati al dialetto, e la mia rubrica fissa sulla etimologia delle principali parole dialettali del nostro ambiente, al momento giunta alla 58ª puntata.

Posso essere ottimista e pensare che il nostro dialetto sia come i gatti che hanno sette vite? Forse cambierà qualcosa, ma il dialetto sopravviverà. Perché il terreno ove è radicato è buono e genuino, come la gente che lo parla!

Poi, per quel che ci riguarda, ricordiamo: Ciò che abbiamo ricevuto (istruzione e formazione), non lo abbiamo ricevuto solo per noi ma lo dobbiamo restituire (con gli interessi) a chi verrà dopo di noi.

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Il dialetto è una lingua?

9 – Il dialetto è una lingua?

Per definizione una lingua “È l’insieme delle regole grammaticali e dei vocaboli mediante i quali una comunità riesce a comunicare”.

In pratica anche il dialetto è una lingua. Lo era già quando le attuali lingue nazionali emettevano i primi balbettii. Perché anche il dialetto è un mezzo di comunicazione generale, che ha caratteristiche specifiche per ogni singola zona, che si conforma all’ambiente (pianura/montagna) e al fisico delle persone (carattere, voce, corpo), ha una sua grammatica basata più sulla logica che sulle regole scritte; ha una base generale che è il latino, ma con innesti da altre parlate.

Il dialetto ha poi una sua produzione letteraria che abbraccia tutti gli aspetti dell’esistenza e del sociale, e si esprime con forme letterarie, come le lingue ufficiali.

 

9Maestra a Castellaro

(da Google)

Queste Forme letterarie sono:

la Poesia, che serve ad esprimere le sensazioni intime, oggi molto usata e sentita;

la Satira, che ridicolizza i vizi della gente per correggerli (Castìgat ridèndo mòres);

i Proverbi, cioè un insieme di massime che racchiudono secoli di osservazioni;

le Preghiere: quando si è disperati a chi ci si rivolge?

il Sonetto, un elaborato in rima per festeggiare sposi novelli, anniversari di

matrimonio, l’ordinazione di un sacerdote, una laurea, eventi, ecc...

gli Indovinelli, a volte normali, a volte a doppio senso;

i Non senso e gli Scioglilingua;

le Filastrocche didattiche o per giocare;

le Conte e i giochi eseguiti al ritmo di filastrocche;

le Formule di catechismo per imparare meglio il testo e i concetti;

le Maschere, commedie in rima, rappresentate a carnevale da gruppi spontanei

ambulanti, legati a fatti quasi sempre scabrosi, o comunque degni di attenzione;

gli Stornelli, duelli giocosi sulle qualità canore e letterarie. (quasi sempre in italiano).

gli Strambotti, o Dispetti, che spesso erano un modo di canzonare le ragazze

vanitose o i maschietti presuntuosi.

i Maggi drammatici, tipici del crinale, veri capolavori di drammaticità, con

una musica martellante, testo in rima obbligata, e una scenografia caratteristica;

il Cantamaggio, (si svolgeva nella notte tra il 30 Aprile e il 1° 1Maggio), per fare la

serenata alle ragazze da marito;

le Cantate, che, normalmente, erano storie vere messe in rima e in musica, cantate

nei mercati o nelle fiere per raccogliere oboli;

le Passioni: storie di Santi, della vita di Gesù e della Madonna.

Scena del Maggio Drammatico ancora molto vivo nell’alto Appennino.

(Da Maggio drammatico a Villa Minozzo)

I dialetti non hanno nulla da invidiare alle lingue ufficiali. Anzi, molto spesso sono le lingue nazionali ad attingere alla parlata dialettale per migliorarsi e trasmettere sensazioni più forti, per darsi la carica.

Ma i dialetti hanno due cose negative:

la trasmissione solo orale e non scritta dei testi (e quindi col tempo

abbiamo perso una infinità di componimenti), e

l’essere stati abbandonati e rifiutati.

E quando abbiamo cominciato a ragionare sul nostro passato ci siamo accorti che, credendo di emanciparci, abbiamo gettato via i mobili autentici, piccoli capolavori di ingegno, per sostituirli con quelli anonimi in laminato di plastica. Abbiamo tolto di mezzo i veri valori del nostro passato sostituendoli con valori appariscenti ma effimeri. Cioè:

Cûn l’aqua spôrca d ‘ la bacinèla

i’ èm butâ via ânch al pîn ch’a gh’êra dénter.

[Con l’acqua sporca del catino abbiamo gettato via anche il

bambino che c’era dentro per lavarlo].

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L'importanza del dialetto

8 – Ma il dialetto è davvero importante?

Questa domanda mi fu rivolta durante la presentazione del Vocabolario dialettale a Cervarezza (estate 2010). Propongo una contro-domanda: Perché studiamo ancora il latino, il greco antico e altre lingue morte da millenni? Spero che la risposta sia: per i contenuti che esse ci tramandano. Solo qualche parola su questo tema. Un discorso di approfondimento lo si potrà fare meglio in altra sede.

Il nostro dialetto diventa importante quando ci rendiamo conto che ha tanti contenuti validi ancora oggi, in una società che sta vorticosamente cambiando, continuamente distratta dalle novità e propensa a dimenticare le cose dette o sentite solo ieri. E quelli del dialetto sono i valori sempre validi, anche col mutare della società: onestà, laboriosità, tolleranza reciproca, solidarietà, rispetto.

Dopo un lungo periodo in cui parlare in dialetto, parlare del dialetto, o solo interessarsene, sembrava umiliante, oggi assistiamo ad un costante e crescente interesse per la parlata dei nostri avi. Ci sono compagnie di teatro dialettale, Concorsi, Ricerche, Siti sui media che studiano il dialetto sotto aspetti diversi, e pubblicazioni che ne rivendicano i valori sociali, come vedremo in seguito. Il fenomeno della riscoperta del dialetto deriva, a mio parere (ma non solo mio), da due costatazioni:

  1. L'esigenza di riappropriarci di un patrimonio geneticamente nostro, e del quale siamo stati defraudati in modo subdolo”, più o meno decettivo, in nome di una istruzione pianificata a livello di nazione, ma anche appiattita, come qualità, al livello più basso. [Cfr.: Lombardi-Satriani citato in LE PARLATE DELL’EMILIA E DELLA ROMAGNA, di G. Bellosi e G. Quondamatteo – Ed. Del Riccio, 1979, pag. 7];

  1. La voglia intima di sapere da dove veniamo e chi siamo, di ritrovare la nostra identità, le radici, la specificità di un popolo, di una razza. E questo non significa chiuderci in noi stessi, ridurre i propri orizzonti, ma solo approfondire le proprie origini anche per comprendere meglio noi e chi ci sta vicino.

8Filatrice

(Foto T. Lodi p. g. c.)

C’è ancora gente (purtroppo anziana) che si rifugia nelle espressioni dialettali per raccontarsi, per consolarsi, per farsi capire! Per costoro il dialetto è la lingua viva, quella confidenziale, quella di tutti i giorni, quella, insomma, che ti conserva le amicizie e ti aiuta a restare a galla, demandando all’italiano il compito di risolvere i problemi burocratici.

E poi ci siamo noi, gente entrata nel ventunesimo secolo, che siamo ancora intrisi di espressioni nate e cresciute in campagna, poi passate al quotidiano di tutti. Espressioni che ormai non conservano più il valore iniziale, di quando sono state coniate, o perché non si compiono più quei gesti o perché non esistono più gli utensili e la possibilità di vedere dal vivo quanto affermato. Ad esempio: andar fuori dal seminato, tirarsi la zappa sui piedi, chiudere la stalla dopo che i buoi sono fuggiti; far sotto come le patate, ecc.

Perché abbiamo abbandonato il dialetto?

Anche in questo caso vi sono due motivazioni.

La prima è di carattere psicologico: dopo la scolarizzazione il dialetto restava la lingua dei poveri, dei perdenti, quindi si tentava di parlare italiano per camuffare la propria origine contadina.

La seconda causa (strano, ma vero!) è stata l’istruzione pubblica. Con la scuola obbligatoria si credeva di unire gli italiani anche mediante una unica lingua nazionale. Ci hanno costretti a parlare italiano (e questo, di per sé, non è un male), ma ci hanno anche spinti a considerare il dialetto un linguaggio da screditare. Così abbiamo sacrificato il dialetto ma, dopo oltre 156 anni, non parliamo ancora bene neppure l’italiano.

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